Etica ambientale

etica ambientale

Alcune realtà italiane impegnate nell’etica ambientale si mettono in rete. Con una «Carta di intenti», lanciano una collaborazione per richiamare la centralità, in questo nostro tempo, dei temi legati all’ambiente e alla sostenibilità ed essere interlocutrice credibile per le istituzioni, capace di interagire con il mondo dell’economia, della politica, della cultura e dell’educazione.

Ad oggi sono parte della rete Aggiornamenti Sociali, Rivista della Fondazione Culturale San Fedele, i Centri di Etica Ambientale di Bergamo e di Parma, la Fondazione Lanza di Padova, il Monastero di Siloe in Toscana e il Centro Studi sulle culture della pace e della sostenibilità dell’Università di Modena.

La Carta delinea i principi che muovono queste diverse strutture nella promozione di un umanesimo ecologico, capace di intrecciare la custodia dell’ambiente con quella delle relazioni interumane nonché l’attenzione alle prossime generazioni.È con i nostri comportamenti che possiamo o meno attuare un modello di sviluppo sostenibile. Cura e responsabilità, rispetto e tutela della diversità, precauzione, sobrietà, solidarietà e accoglienza: le questioni ambientali oggi sono necessariamente anche questioni etiche.

La rete, che si vuole del tutto aperta a nuovi contributi, promuoverà un seminario annuale e condividerà iniziative e strumenti di formazione e comunicazione, perché sempre più è in gioco il futuro delle persone e delle comunità umane. Un primo articolo che presenta i soggetti coinvolti e segnala il percorso che ha portato alla costituzione della rete è stato pubblicato nel numero di maggio di Aggiornamenti sociali.

Scarica la carta di base

Nuovi stili di vita per nutrire la possibilità della vita

“Sono gli uomini che rendono le terre vive e care” (Fredo Valla)

E’ ormai da diversi anni che nel linguaggio corrente è entrata una nuova categoria concettuale, prima non utilizzata e che si esprime con il termine ”nuovo stile di vita”; perseguire o testimoniare nuovi stili di vita.
Questa irruzione è connessa alla diffusa consapevolezza che il genere o stile di vita fino ad ora consumato – e proprio della cultura occidentale – ha generato diffusi danni, financo alla insostenibilità strutturale di questo genere di vita. Un “genere di vita” in qualche modo distorto, che ha avuto delle ricadute negative sull’uomo, sulle relazioni umane (le relazioni interpersonali), sulle relazioni sociali a vari livelli e sull’ambiente che ha subito l’impatto distruttivo di tali modelli di sviluppo. Questa consapevolezza si è progressivamente formata a seguito di criticità che con frequenza sempre più ravvicinata hanno interessato la nostra vita e, quanto meno, hanno portato a dubitare di ciò che solo fino ad un quarto di secolo fa veniva definito il nostro modello di sviluppo e/o organizzazione della vita sociale ed economica (un modello che pur con tante diversificazioni organizzative, per definizione lo si riteneva “avanzato” per la capacità che si riteneva avesse di rispondere ai bisogni dell’uomo). Il “grido di dolore” che in tante forme di criticità è emerso dalla natura, dall’ambiente, dalla terra, ha preceduto la capacità dell’uomo di intelligere la realtà ed interpretarla, e ha costretto l’uomo ad interrogarsi, a ripensarsi e a svegliarsi dalla sonnolenza della sua cultura non adeguata alle urgenze del tempo.

Tutto ciò che di negativo è accaduto è ascrivibile al “tempo della modernità” e proprio il collasso di tale tempo ha portato alcuni ad affermare che siamo già oggi nel tempo della posmodernità. Affermazione discutibile questa, poiché se appare evidente che un tempo è finito o sta per finire (per la sua insostenibilità e reiterabilità)– anche se inerzialmente tende ancora a dipanarsi secondo vecchie logiche – non è così evidente che un nuovo tempo sia iniziato, non è ancora evidente che un nuovo modo di essere nel tempo (e di “fare tempo”) e di essere nello spazio (e di creare e/o usare lo spazio) sia iniziato. E’ questo certamente il tempo dell’interrogarsi. E oggetto dell’interrogarsi è oggi l’uomo, ovvero colui che può “ri-creare” il tempo e lo spazio; che può ripensare il suo “stare nel tempo” e di “plasmarlo” (ma a immagine e somiglianza di chi?).

Circa 1600 anni fa S. Agostino d’Ippona scriveva: “Voi dite: i tempi sono cattivi; i tempi sono pesanti; i tempi sono difficili: Vivete bene, e muterete i tempi!” (dai Discorsi, 311,8). Si, anche oggi, come allora, il vivere quotidiano non è “un vivere bene”, se si intende il vivere bene non tanto ciò che concerne alle piccole dimensioni del vivere “con senso” negli spazi – sempre più “privati” e ristretti – di sopravvivenza creati negli anfratti di un tempo travolgente ed iniquo. Vivere bene!, dunque. Ma che forma può e deve assumere oggi il “vivere bene”? Questa domanda potrebbe anche essere declinata in simil modo: “quali sono i beni che fanno bene alla vita?” La risposta (o le risposte)a questa domanda non può che avere davanti la questione antropologica, ed il rispondere alla primeva domanda che Dio pose all’uomo: “Adam,dove sei?” , ovvero anche : Uomo chi sei? Che cosa cerchi? Dove vai? E’ la domanda idealmente posta all’inizio del racconto biblico, quando l’interlocutore divino alla ricerca mai arresa di un amico umano che “collaborasse” alla sua opera di creazione e “custodisse” la sua opera, si manifestò, all’uomo errante, con queste domande.

L’appello Agostiniano risuona ancora oggi quanto mai pertinente nell’attuale situazione a dir poco problematica, riproponendo l’imperativo di un nuovo cominciamento a partire da noi stessi; a partire dall’uomo il cui volto identitario è divenuto sfigurato rispetto al suo essere stato creato “ad immagine e somiglianza di Dio” e da Dio “collocato” nel creato per esserne il custode, il coltivatore, il sacerdote. Se appare evidente che “la realtà oggettiva” reclama una nuova modalità dell’operare dell’uomo, non si può non partire dall’urgenza della “rigenerazione dell’uomo” affinchè diventi “capace di operare” per “operare la giustizia” nel creato e con il creato. A proposito del “vivere bene”: mi colpisce la definizione della parola bene che riporta un dizionario etimologico: “Bene = quello che si desidera in quanto è conveniente alla natura umana e che, posseduto, dona la pace e ci fa sentire in armonia con il tutto”. E poi anche: “quello che per se stesso si deve eleggere in quanto utile all’umano consorzio e morale”. Ma appunto: quanto è conveniente alla natura umana e utile all’umano consorzio?

Come monaco, in un monastero che segue la regola di S. Benedetto, mi permetto di “balbettare” qualcosa che attinge non dalle tecno-scienze ma dalla sapienza monastica , ovvero dalla millenaria esperienza (consumata in quei “laboratori” permanenti di rigenerazione dell’umanità che sempre sono stati i monasteri e che sempre hanno fatto i conti con i transeunti scenari della storia). In fondo la tradizione monastica e la Regola non ci rimandano ad altro se non a una precisa visione dell’uomo: che cosa è veramente importante per una persona? Quali sono le dimensioni dell’essere che possono e devono essere sviluppate? E la questione antropologica sta alla base anche di tutte le problematiche attuali che conosciamo bene. Dalla mancanza di senso nelle relazioni interpersonali alla crisi economica (in tutte le sue sfaccettature), dalle istanze dello sviluppo a quelle ecologiche, solo per citarne alcune. Ed è proprio in questa direzione che il nostro monastero cerca di portare il proprio contributo. Sono solo uomini rigenerati che possono “prendere in mano il creato” e custodirlo per lo “scopo” per cui ci è stato dato: per la vita! E non solo conservarlo ma anche tras-formarlo continuando l’opera creatrice di Dio “con le mani dell’uomo” operanti per celebrare il creato, “sviscerando” la materia per il bene del vivere, che è “cosa buona e bella”, in tutte le declinazioni che nel tempo essa deve assumere con il divenire stesso della consapevolezza di sé e del proprio intorno che l’uomo ha. Nella “materia del mondo” è nascosto “l’afflato di Dio”. Bello è il linguaggio dei Padri Siriaci che nel IV secolo scrivevano che “la Dabar di Dio ha preso lo spessore della materia del mondo” . Ragion per cui Isacco di Ninive poi scrive: “Il primo libro che fu dato da Dio agli esseri dotati di ragione fu la natura delle creature; quanto all’insegnamento offerto attraverso l’inchiostro, esso fu aggiunto poi …“. E spetta agli uomini “illumiati” aprire questo libro (senza strapparne le pagine e comprometterne la fruizione/lettura da parte delle generazioni future). E spetta agli uomini continuare a scrivere nel tempo questo libro! Nel Medioevo erano gli uomini divenuti Monos/persone unificate con Dio che partendo dai monasteri poterono ripensare l’economia materiale (poiché appunto la vita spirituale è tutt’altro che immateriale!), che poi aveva valenza non solo per la micro economia del monastero ma per la Civitas che nella decadenza dei modelli sociali ed economici crollati necessitava di nuovi cominciamenti e nuove progettualità e “nuova creazione”.

Non a caso si parla di “Civiltà dei monasteri”, proprio perché lo stile di vita del monastero ha sempre cercato di “intercettatare” la problematicità del suo tempo storico ed interagire con la realtà sessa per “riplasmarla”. E civiltà – che attiene alla dimensione orizzontale della vita- è la dimensione che incorpora, in un unicum, il livello di cultura relazionale e di organizzazione della vita materiale e vita spirituale. Persone illuminate, per custodire il tempo dell’accadere di Dio in uno spazio che è quello terreno.

Fra Roberto/monaco comunità monastica di Siloe